martedì 30 ottobre 2007

Neanche questa....

Un tempo Craxi disse che per "affossare" qualcosa bastava istituire una Commissione d'inchiesta.
Oggi non abbiamo avuto neppure questa soddisfazione: la Camera ha infatti respinto (con voto della CdL più IDV e UDEUR) la proposta di istituire una Commissione d'Inchiesta su quanto accaduto durante il G8 di Genova del 2001.
Non ho commenti, non ho parole; rimando solo, per chi volesse un approfondimento non "di parte", alla trasmissione "Blu Notte - Misteri Italiani" di Carlo Lucarelli andata in onda su Raitre il 9 settembre 2007 (chissà se sul web è visibile? Magari su youtube?).
P.S. Ne approfitto per una comunicazione di servizio: molti di voi mi hanno segnalato la difficoltà (a volte impossibilità) tecnica di postare commenti; se ritenete, mandatemi una email a chico007@email.it e proverò a "riversare" sul blog.

martedì 23 ottobre 2007

Obiettivo raggiunto!

Uno dei principali obiettivi che mi ero dato nella vita (al di fuori degli affetti familiari) era quello di scendere sotto i 20 di handicap.
Bene, grazie a una maiuscola prestazione sabato scorso sul campo de "La Bollina" in quel di Serravalle, il mio nuovo handicap è 19.2! Tra l'altro, per la prima volta ho "girato" in gara sotto i 90 colpi (89 per l'esattezza).
Posso quindi dire a buon diritto: Obiettivo raggiunto!

giovedì 18 ottobre 2007

La città è uno stato d'animo

La frase del titolo viene sovente (specie dagli accademici genovesi) attribuita a R.S.Lopez, grande storico del medioevo nato a Genova ma professionalmente affermatosi negli USA.
In realtà, Lopez riprese nel 1955 questa definizione, e la applicò alla città medievale.
La definizione originale, viceversa (secondo le mie fonti), si deve a Robert Park, sociologo della Scuola di Chicago, che nel 1915 nel saggio "La città" scriveva:
"La città è qualcosa di più di una congerie di singoli uomini e di servizi sociali, come strade, edifici, lampioni, linee tranviarie e via dicendo; essa è anche qualcosa di più di una semplice costellazione di istituzioni e di strumenti amministrativi, come tribunali, ospedali, scuole, polizia e funzionari di vario tipo. La città è piuttosto uno stato d'animo, un corpo di costumi e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti organizzati entro questi costumi e trasmessi mediante questa tradizione".
Come che sia, prendiamo per buona la definizione e applichiamola a una città a caso, ad esempio Genova.
Fino a tre anni fa, lo stato d'animo-Genova era di entusiasmo, eccitazione, ritrovato orgoglio, fiducia nel futuro. Si veniva dalle Colombiane (del 1992), ma soprattutto dal G8 del 2001 e dal 2004 di GeNova Capitale europea della Cultura.
Si percepiva chiarissima, nel settore pubblico, ma anche in quello privato, la sensazione di stare vivendo un momento di rinascita, di grande attenzione mediatica internazionale, di essere di nuovo - dopo decenni - una città che valeva la pena prendere in seria considerazione per lavorarci, per fare una visita turistico-culturale, per studiarci.
Sono passati meno di tre anni, e quello spirito sembra perduto.
Si percepisce un'aria di inceretezza, una demotivazione, una perplessità di fronte all'inesorabile immobilismo di Genova.
Ne sono prova, non solo le diatribe ormai aperte e pubbliche sui progetti pubblici, ma anche quelle interne al soggetto privato per eccellenza, vale a dire Confindustria, dove le controversie legate alla nuova Presidenza sono frutto di una mancata comunità di intenti.
Si coglie chiaro, insomma, uno stato d'animo "paludoso", rispetto a quello "veleggiante" di pochi anni orsono.
La bella Notte Bianca di metà settembre ha sì rallegrato gli animi (esclusivamente quelli genovesi, va detto, perchè fuori da Genova dubito che qualcuno se ne sia accorto), ma non basta di fronte al fatto che ad oggi davvero quasi nessun progetto sembra avanzare.
Si pensi ad esempio al Porto, rispetto al quale non è chiara quale strategia di sviluppo si voglia perseguire, se puntare a 10 milioni di teus (con relativa necessità di infrastrutture) o se invece incrementare di poco i traffici ma sviluppare il valore aggiunto dato dallo "shipping".
Si pensi al settore culturale (che, tra parentesi, è stato anche nel 2004 visto sempre come funzionale all'immagine della città e non come fine a se stesso), rispetto al quale non è chiara quale identità si voglia affermare, se il '600 o il contemporaneo o la cultura socializzata o altro.
Si pensi infine all'aeroporto, alla Fiera, al marketing territoriale, ai progetti infrastrutturali: non decolla niente...
E tutto ciò si ripercuote sullo stato d'animo della città, inviluppandosi in un gorgo da cui sembra difficile uscire.

lunedì 1 ottobre 2007

I.G.Y. – “... the future looks bright...”

Nel 1982 Donald Fagen compose “I.G.Y.”, brano di apertura dell’album “The Nightfly” (uno dei migliori album di tutti i tempi, secondo me): descriveva il modo di sentire di un giovane di fronte alle conquiste scientifiche di fine anni ’50 e diceva, tra l’altro:
“...You've got to admit it
At this point in time that it's clear
The future looks bright...”.
La canzone si ispirava all’International Geophysical Year (I.G.Y.), vale a dire a un programma di attività scientifiche che si svolse dal luglio 1957 al dicembre 1958 su proposta (formulata nel 1952) dell’International Council of Scientific Unions. Nell’ambito dell’I.G.Y., ad esempio, venne lanciato dall’Unione Sovietica il primo satellite artificiale, ossia lo Sputnik 1.
Come per Donald Fagen (nato nel 1948), allo stesso modo la generazione nata negli anni ‘60 (la mia) è cresciuta con la certezza assoluta che, grazie allo sviluppo scientifico e tecnologico, il futuro sarebbe stato senza alcun dubbio migliore del passato e del presente. E anche dal punto di vista sociale eravamo sicuri che le disuguaglianze si sarebbero ridotte, se non del tutto eliminate.
Il futuro, insomma, era ineluttabilmente visto come “progresso”.
L’uomo sulla luna nel 1969 ha probabilmente rappresentato l’apice di questo momento.
Poi è iniziato il periodo del dubbio e del’incertezza, dalla crisi energetica del 1973, agli “anni di piombo” (fine anni ’70), al “buco nell’ozono” (o “dell’ozono”: non l’ho mai capita...), fino ad arrivare al periodo attuale, caratterizzato da preoccupazione, quando non di vera paura del futuro.
Alcuni esempi: fumare provoca il cancro, i rapporti sessuali provocano l’AIDS, l’energia nucleare è pericolosa ma le fonti energetiche (e persino l’acqua) si stanno esaurendo, l’utilizzo di beni comuni (automobili, spray, etc) provocano impatto ambientale negativo, le popolazioni dei Paesi in Via di Sviluppo sono una potenziale minaccia terroristica, trovare un posto di lavoro serio è per un neo-laureato quasi illusorio, il cibo che mangiamo è poco sano, i bambini non possono andare per strada da soli, e così via.
La spensieratezza, la fiducia (ma secondo i punti di vista si potrebbe anche dire l’incoscienza) dei “favolosi anni ’60” (cari a Gianni Minà), ma anche, a dire il vero, degli anni ’70 e degli anni ’80 dell’ “edonismo reaganiano”, sono finiti (come la torta di riso).
Mi sono domandato se sono io (noi) che, con l’inesorabile avanzare del tempo, abbiamo mutato atteggiamento soggettivo. Mi sembra, però, che l’atteggiamento sia condiviso anche dalle generazioni nate dagli anni ’80 in poi, che in questo clima di scarsa fiducia nel futuro stanno crescendo, e che quindi questo sentire sia generalizzato, e non solo in Occidente.
Insomma, credo che nessuno oggi potrebbe più candidamente affermare che “...the future looks bright...”.
Badate che, nella storia dell’umanità (o di quel poco che conosciamo noi occidentali), solo prima dell’anno 1000 ci fu un senso di depressione collettiva diffuso, mentre in seguito abbiamo avuto i vari Rinascimenti, Illuminismi, Rivoluzioni industriali.
Secondo me, la comunità scientifica ha le sue belle colpe in tutto questo, perchè, anzichè trovare i rimedi, ha preferito spesso indicare i problemi. I media ne hanno forse ancora di più, per aver sistematicamente messo in maggior luce gli aspetti catastrofistici più che quelli positivi.
Un esempio a mio avviso lampante di questo atteggiamento generale è la reazione di fronte alle nuove frontiere delle bio-tecnologie: anzichè gioire per il fatto di poter avere prodotti alimentari di maggiore resa e qualità grazie agli OGM, siamo terrorizzati dalle possibili conseguenze. Attenzione: non sto dicendo che gli OGM siano un bene o un male, non ne so nulla, non sono preparato a rispondere scientificamente e, al limite, ai fini di queste mie riflessioni la cosa è ininfluente; sto solo dicendo che l’atteggiamento generale di fronte agli OGM è quello che ho descritto, ossia di preoccupazione e di diffidenza anzichè di speranza e fiducia.
Altro esempio: i prodotti tecnologici che trovano maggior successo e sviluppo sono quelli compatibili con il chiudersi nel “nido”, come Internet o i telefonini, sono i prodotti “individuali” per eccellenza, quelli per i quali non occorre neppure un minimo contatto fisico con altri.
Siete d’accordo?
E, se sì, quale la soluzione? Non lo so, forse battersene un po’ di più gli zebedei, vivere la vita alla giornata, smettere sempre di pensare a “cosa lasceremo alle generazioni future” e pensare un po’ di più a quelle presenti, che quelle future ci penseranno da sole, smettere di sentirsi in colpa per ogni chilometro che facciamo in macchina, rispolverare Lorenzo il Magnifico (“chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza”)?
Non ho risposte, ma una cosa è comunque chiara: anche per Donald Fagen “the future looks bright”: “looks”, appunto, ossia “viene percepito”, “si è nella prospettiva di...”.
E questo cambia parecchio, se non tutto.