Nel 1982 Donald Fagen compose “I.G.Y.”, brano di apertura dell’album “The Nightfly” (uno dei migliori album di tutti i tempi, secondo me): descriveva il modo di sentire di un giovane di fronte alle conquiste scientifiche di fine anni ’50 e diceva, tra l’altro:
“...You've got to admit it
At this point in time that it's clear
The future looks bright...”.
La canzone si ispirava all’International Geophysical Year (I.G.Y.), vale a dire a un programma di attività scientifiche che si svolse dal luglio 1957 al dicembre 1958 su proposta (formulata nel 1952) dell’International Council of Scientific Unions. Nell’ambito dell’I.G.Y., ad esempio, venne lanciato dall’Unione Sovietica il primo satellite artificiale, ossia lo Sputnik 1.
Come per Donald Fagen (nato nel 1948), allo stesso modo la generazione nata negli anni ‘60 (la mia) è cresciuta con la certezza assoluta che, grazie allo sviluppo scientifico e tecnologico, il futuro sarebbe stato senza alcun dubbio migliore del passato e del presente. E anche dal punto di vista sociale eravamo sicuri che le disuguaglianze si sarebbero ridotte, se non del tutto eliminate.
Il futuro, insomma, era ineluttabilmente visto come “progresso”.
L’uomo sulla luna nel 1969 ha probabilmente rappresentato l’apice di questo momento.
Poi è iniziato il periodo del dubbio e del’incertezza, dalla crisi energetica del 1973, agli “anni di piombo” (fine anni ’70), al “buco nell’ozono” (o “dell’ozono”: non l’ho mai capita...), fino ad arrivare al periodo attuale, caratterizzato da preoccupazione, quando non di vera paura del futuro.
Alcuni esempi: fumare provoca il cancro, i rapporti sessuali provocano l’AIDS, l’energia nucleare è pericolosa ma le fonti energetiche (e persino l’acqua) si stanno esaurendo, l’utilizzo di beni comuni (automobili, spray, etc) provocano impatto ambientale negativo, le popolazioni dei Paesi in Via di Sviluppo sono una potenziale minaccia terroristica, trovare un posto di lavoro serio è per un neo-laureato quasi illusorio, il cibo che mangiamo è poco sano, i bambini non possono andare per strada da soli, e così via.
La spensieratezza, la fiducia (ma secondo i punti di vista si potrebbe anche dire l’incoscienza) dei “favolosi anni ’60” (cari a Gianni Minà), ma anche, a dire il vero, degli anni ’70 e degli anni ’80 dell’ “edonismo reaganiano”, sono finiti (come la torta di riso).
Mi sono domandato se sono io (noi) che, con l’inesorabile avanzare del tempo, abbiamo mutato atteggiamento soggettivo. Mi sembra, però, che l’atteggiamento sia condiviso anche dalle generazioni nate dagli anni ’80 in poi, che in questo clima di scarsa fiducia nel futuro stanno crescendo, e che quindi questo sentire sia generalizzato, e non solo in Occidente.
Insomma, credo che nessuno oggi potrebbe più candidamente affermare che “...the future looks bright...”.
Badate che, nella storia dell’umanità (o di quel poco che conosciamo noi occidentali), solo prima dell’anno 1000 ci fu un senso di depressione collettiva diffuso, mentre in seguito abbiamo avuto i vari Rinascimenti, Illuminismi, Rivoluzioni industriali.
Secondo me, la comunità scientifica ha le sue belle colpe in tutto questo, perchè, anzichè trovare i rimedi, ha preferito spesso indicare i problemi. I media ne hanno forse ancora di più, per aver sistematicamente messo in maggior luce gli aspetti catastrofistici più che quelli positivi.
Un esempio a mio avviso lampante di questo atteggiamento generale è la reazione di fronte alle nuove frontiere delle bio-tecnologie: anzichè gioire per il fatto di poter avere prodotti alimentari di maggiore resa e qualità grazie agli OGM, siamo terrorizzati dalle possibili conseguenze. Attenzione: non sto dicendo che gli OGM siano un bene o un male, non ne so nulla, non sono preparato a rispondere scientificamente e, al limite, ai fini di queste mie riflessioni la cosa è ininfluente; sto solo dicendo che l’atteggiamento generale di fronte agli OGM è quello che ho descritto, ossia di preoccupazione e di diffidenza anzichè di speranza e fiducia.
Altro esempio: i prodotti tecnologici che trovano maggior successo e sviluppo sono quelli compatibili con il chiudersi nel “nido”, come Internet o i telefonini, sono i prodotti “individuali” per eccellenza, quelli per i quali non occorre neppure un minimo contatto fisico con altri.
Siete d’accordo?
E, se sì, quale la soluzione? Non lo so, forse battersene un po’ di più gli zebedei, vivere la vita alla giornata, smettere sempre di pensare a “cosa lasceremo alle generazioni future” e pensare un po’ di più a quelle presenti, che quelle future ci penseranno da sole, smettere di sentirsi in colpa per ogni chilometro che facciamo in macchina, rispolverare Lorenzo il Magnifico (“chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza”)?
Non ho risposte, ma una cosa è comunque chiara: anche per Donald Fagen “the future looks bright”: “looks”, appunto, ossia “viene percepito”, “si è nella prospettiva di...”.
E questo cambia parecchio, se non tutto.
lunedì 1 ottobre 2007
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3 commenti:
Bello, ma ci sarebbe troppo da dire sull'argomento ... se ho tempo provo a risponderti.
gc
Fratello,
il mondo attuale, o almeno quello "occidentale" (cioe' escludendo le popolazioni che tu definisci "minacce terroristiche") e' dominato da una unica superpotenza che ha basato (e basa) il suo successo sull'individualismo. Che puoi aspettarti d'altro? In quanto a soluzioni, uno potrebbe pensare a diminuire la potenza della superpotenza...
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